Peggy Guggenheim: art addict

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Peggy Guggenheim: art addict
Un documentario sulla vita dell'icona dell'arte Peggy Guggenheim, basata sulla sua biografia.
Peggy Guggenheim: art addict
(Peggy Guggenheim: Art of This Century)
Regia: Lisa Immordino Vreeland
Cast: Peggy Guggenheim, Marina Abramovic, Dore Ashton, Jacqueline B. Weld, Jeffrey Deitch
Genere: documentario
Durata: 80 min. - colore
Produzione: USA (2015)
Distribuzione: Wanted
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Erede delle ricchissime famiglie Guggenheim e Seligman, Peggy Guggenheim (1898-1979), nei suoi avventurosi ottantun anni vissuti a cavallo tra Stati Uniti ed Europa ha frequentato e supportato (quando non rivelato al mondo, come nel caso di Jackson Pollock) svariati artisti e intellettuali: Man Ray, Costantin Brancusi, Salvador Dalì, Pablo Picasso, Jean Cocteau, Samuel Beckett, Vasilij Kandinskij, Pete Mondrian, Alexander Calder… alcuni di loro diventeranno compagni di vita e veri e propri mentori, come il (secondo) marito Max Ernst, Marcel Duchamp, Herbert Read. Personaggi sospesi tra bel mondo e vita bohémien, che qui sfilano in un vorticoso compendio della cultura del secolo scorso.
Già alle prese con un ritratto analogo di intraprendenza femminile (Diana Vreeland: L’imperatrice della moda, sulla fashion editor di “Harper’s Bazaar”), la regista ha in questo caso dalla sua parte materiale inedito, ovvero i nastri, riemersi durante la pre-produzione del film, dell’ultima intervista concessa dalla Guggenheim a Jacqueline B. Weld, autrice della biografia “Peggy: The Wayward Guggenheim”. Il ritrovamento non è una rivelazione scioccante quanto quella dei rullini riscoperti in Alla ricerca di Vivian Maier, ma la voce secca della collezionista – che ricorda fatti e opinioni più inerenti alla vita privata che alle scelte “professionali” – dà un tocco di verità e freschezza a questa carrellata travolgente di fruttuosi sodalizi tra celebrità. In parallelo, i rapidi, canonici e non sempre incisivi interventi di galleristi, storici dell’arte e curatori di oggi puntellano un flusso di immagini davvero cospicuo: foto private, filmati e una sequenza impressionante, al limite dell’overdose (l’addiction del sottotitolo), di riprese di dipinti e sculture e di rare pellicole arthouse (Maya Deren, Man Ray, Salvador Dalí, Hans Richter, tra gli altri).
La “arte-dipendente” o art addict, che si svela grazie a quella colonna audio e alle scelte di montaggio è una donna fragile, che grazie ai suoi mezzi, una forte volontà di emanciparsi e un non trascurabile fiuto per gli affari si inventò disinvolta mercante e collezionista imponente (non più privata ma museale). Un’eccentrica sui generis che, ben consigliata da collaboratori d’eccezione, contribuì a cambiare le modalità di fruizione dell’arte – quando ancora non era riconosciuta come tale, se non addirittura giudicata “spazzatura” – rendendola più accessibile al grande pubblico.
Su tutto, come giustamente ricorda nel film il mercante d’arte e curatore Jeffrey Ditch, Guggenheim è stata “il collegamento tra modernismo europeo e americano, tra surrealismo ed espressionismo astratto”: e il film infatti ne ripercorre la biografia tra New York, Parigi, Londra, ancora Parigi e New York e infine Venezia (dove ricevette la cittadinanza onoraria nel ’62, molto dopo aver prestato le sue opere alla Biennale).
Sedotta da questa figura priva di istruzione universitaria, autodidatta, sedicente “ostetrica dell’arte moderna”, la regista suggerisce agenti e fattori esterni al raggiungimento di tale successo personale (il più eclatante: la fuga degli artisti dall’Europa alla vigilia della Seconda guerra); anche per questa ambiguità tra intenzioni e circostanze, dipendenza e spirito di ricerca, il personaggio risulta ancora più intrigante. Pervade la narrazione un certo voyeurismo riguardo gli aspetti più bizzarri della socialite newyorkese: l’ossessione per il sesso (esibita nell’autobiografia “Out of This Century”), il narcisismo frustrato, il senso di rivalsa verso un milieu asfissiante. C’è spazio anche per curiosità per cinefili, come l’ospitata di Robert De Niro (qui in veste di figlio di due pittori entrambi esposti dalla Guggenheim) o il prestito della testiera da letto di Calder al set del misconosciuto La ragazza di nome Giulio di Tonino Valerii (ancor meno noto dell’apparizione della stessa Peggy in Eva di Joseph Losey).
Un jazz elegante forza in direzione gioiosa un privato segnato da molti lutti e sconfitte. I contrasti sono accentuati: capitalismo vs anarchia della comunità artistica, maschilismo vs emancipazione, accademia vs avanguardia; un forte gusto per il romanzesco lavora al giusto riconoscimento di una figura determinante della cultura del Ventesimo secolo, in una celebrazione stylish del diritto ad autodeterminarsi.