Pelè
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E’ il 1950 e il Brasile intero ha la radio all’orecchio o gli occhi puntati al piccolo schermo: è una questione di orgoglio nazionale. La sconfitta in casa, per mano dell’Uruguay, nell’ultima partita dei Mondiali di Rio, getta il paese in uno stato di prostrazione collettivo e devastante. Attraverso la messa in discussione della pratica della ginga, espressione di un calcio felice e spettacolare, i brasiliani mettono in discussione la loro stessa identità e la loro visione del mondo. Ma non il piccolo Dico, 9 anni, folletto del calcio giocato senza scarpe tra i vicoli di Bauru. Colpito dalla tristezza sul volto del padre, Dico gli promette che un giorno porterà il Brasile alla vittoria, e dodici anni dopo, in Svezia, onorerà quel primo voto e si farà conoscere dal mondo intero col nome di Pelé.
La storia della relazione tra Edson Arantes Do Nascimento e la settima arte è una storia curiosa e a suo modo leggendaria, che passa soprattutto dalla sua apparizione come attore in alcuni film, il più noto dei quali è certamente Fuga per la vittoria, con quel finale in rovesciata che l’odierno biopic di Jeff e Michael Zimbalist richiama esplicitamente. Il nuovo film vede ancora il campione comparsare, solo per un attimo, come nume protettore, seduto nella hall dell’albergo, nel momento chiave in cui la squadra di Garrincha, Altafini e dello stesso giovanissimo Pelé trova finalmente lo spirito giusto, troppo a lungo represso, alla vigilia del gran finale.
Il film dei fratelli Zimbalist, però, è il primo a non aver imparato la lezione: anziché affidarsi all’estro e al senso del momento, anziché sublimare il mestiere in una sorta di danza e giocare col cinema come si dovrebbe fare con un pallone, sceglie senza vie di mezzo il racconto più classico e pietistico, affondando in un’estetica che avremmo detto superata anche dal prodotto più dichiaratamente mainstream. Nelle sequenze in cui Dico, ragazzino, si allena segretamente con i frutti dell’albero del mango, in mancanza di un pallone e dell’approvazione materna, così come in quelle in cui, perso e annullato dalle indicazioni di un allenatore che vuole giocare all’europea senza sapere bene cosa vuol dire, per ritrovarsi deve appigliarsi al ricordo delle corse polverose tra i vicoli del villaggio, il cinema muore e al suo posto si assesta un ibrido tra lo sceneggiato televisivo e la campagna pubblicitaria pseudoautoriale da intervallo sul megaschermo.
C’è un’ingenuità buona, che è sinonimo di sincerità; c’è quella che s’identifica invece con l’eccessiva sicurezza; e infine quella degli sprovveduti. Quella di Pelé appartiene ad una delle due ultime categorie, ad un misto di entrambe. Comincia con una grande delusione sullo schermo e finisce con una piccola delusione in sala.