Un paese quasi perfetto
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“Una volta c’era il lavoro”, recita la voce fuori campo di Silvio Orlando nell’incipit di Un paese quasi perfetto, e basta invertire l’ordine delle parole per capire che quella che si racconterà è una favola che, per una volta, non vede protagonista un re o una principessa, ma l’assenza di impiego che ha umiliato e desertificato un’intera nazione: quel Paese imperfetto in cui (soprav)viviamo.
Massimo Gaudioso, lo sceneggiatore di Matteo Garrone (ma anche di Gianni Di Gregorio, Daniele Vicari, Daniele Ciprì e Carlo Verdone, per citare solo qualche nome), torna dietro la cinepresa dopo Il caricatore e La vita è una sola per raccontare la storia di tre amici che vivono a Pietramezzana, paesino di fantasia nelle Dolomiti lucane di cui cercano di risollevare le sorti. Domenico, Nicola e Michele non si rassegnano alla cassa integrazione e cercano di restituire dignità a quello che un tempo era un laborioso centro minerario. L’occasione sembra essere l’apertura di una nuova fabbrica, ma oltre al reperimento di una cifra consistente da parte della banca locale diretta da Nicola si richiede la presenza di un medico in loco, figura che a Pietramezzana manca da tempo. Per fortuna passa di lì Gianluca Terragni, un chirurgo plastico del Nord che deve scontare un’infrazione: quale punizione migliore che costringerlo a praticare in paese per un mese, potendo così mostrare la sua presenza agli investitori della fabbrica?
Un paese quasi perfetto è il remake italiano di un film francocanadese del 2003, La grande seduzione, ma è soprattutto il tentativo di bissare il successo di un altro remake, quel Benvenuti al Sud sceneggiato dallo stesso Gaudioso. E se è vero che Gaudioso ha una grande abilità nell’adattare alla realtà italiana storie che provengono da altri paesi, non è altrettanto abile nel rendere i suoi personaggi riconoscibili nel contesto dell’Italia contemporanea. È certamente intenzionale la scelta di una cifra retrò e del tono favolistico di cui sopra, ma anche nelle caratterizzazioni più stilizzate ci deve essere un riscontro di verità, un sottotesto autentico che qui manca, e che invece sarebbe necessario parlando di crisi economica e di problemi reali come la perdita del lavoro e l’abbandono dei paesi da parte dei neodisoccupati.
Paradossalmente il problema sta prima di tutto nella scrittura e si riflette poi nella recitazione che diventa forzata ed eccessiva. Fanno eccezione Fabio Volo, sempre fedele a se stesso, e Carlo Buccirosso, sempre in grado di gestire bene il suo spazio filmico, anche perché il suo è l’unico ruolo davvero originale della storia, ovvero il bancario con una coscienza che rifiuta di essere considerato alla stregua di un Bancomat e crede ancora che le banche abbiano una mission diversa da quella di arricchirsi: quella di investire nei propri clienti, restituendo loro la fiducia in se stessi, oltre che la speranza in un futuro migliore. Gli altri personaggi, a cominciare dal medico milanese prima cinico arricchito e improvvisamente, senza il beneficio di una motivazione credibile o di un vero arco narrativo, ingenuo amante della vita campestre, fino alla bella di Pietramezzana di cui non si spiega mai il muso lungo, si comportano come se non avessero consapevolezza di sé. Del resto la sceneggiatura si esprime come se non avesse fiducia nell’intelligenza del pubblico: basti pensare alla sottotrama in cui Gianluca e il resto del paese cadono dalle nuvole scoprendo un tradimento che gli spettatori hanno già intuito molto prima. Più che di un ritorno all’ingenuità del cinema italiano anni ’50, cui palesemente Gaudioso si ispira, Un paese quasi perfetto sembra dunque un modo pragmatico di capitalizzare su un format che ha avuto successo nel passato recente.